Mi sono innamorata bevendo un caffè

Non mi ricordo il giorno e l’ora, stavamo solo bevendo un caffè.

C’era il sole, e la mia pelle troppo sensibile chiedeva pietà, perché stavamo da tempo immemore nello stesso tavolino fuori dal bar, con quell’ordinazione che oramai è diventata scontata per tutti i camerieri. Stavamo parlando, di questo ne sono certa, perché è stato per una mia battuta, forse un po’ triste, che mi hai sorriso, e avevi gli occhi socchiusi, tipici di quando sei felice, e felice per davvero.

Vedevo poco e niente, gli occhiali appannati per il vapore del caffè, e l’unico spazio in cui filtrava la luce mi bruciava le retine. E ti ho sentito ridere.

Sono sdolcinata e me ne vergogno pubblicamente, perché per una ragazzina provare certi sentimenti è sia normale che straordinario, perché fondamentalmente sono piccola, e che ne so io dell’amore, io che fino ai sedici anni non ho mai avuto alcuna esperienza di questo sentimento tanto semplice quanto confuso da spiegare.

Non so come spiegare, ma qualcosa dentro di me è scattato, come se un pezzetto di me si fosse attaccato a un pezzetto di te, come se ci fosse sempre stata una calamita timida, che solo in quel momento ha preso coraggio per buttarsi, e legarsi, e ho paura.

Da quel poco che ne so, da quello che vedo tra mio padre e mia madre, l’amore ti prende e ti porta con se in un vortice turbolento, tra litigi e impulsi d’affetto, e per come sono fatta, te lo dico, anche se credo che tu te ne sia accorto, sono una lunatica infelice.

Non mi va mai bene nulla, passo dalla felicità alla tristezza in così poco tempo che posso far venire il mal di testa a chi mi sta accanto, spesso sono rozza e maldestra, faccio talmente tante figuracce che le stesse hanno fatto di me un personaggio paradossale, perché parlo di maturità come se sapessi sempre tutto, ma dimostro un animo così immaturo e incoerente da far spavento.

Eppure, in quel momento io non ero più nulla di queste cose, mi sono sentita nuda e fragile per qualche secondo, ma non ho cercato di coprirmi, e non sapevo rispondermi, sapevo solo che mi stavo innamorando.

A distanza di sei mesi (che, ti dirò, sembra tanto tempo, ma alla fine sono solo 185 giorni), ti svelo questa verità: non mi so rispondere neanche adesso. Non ho spiegazioni, non ho motivazioni valide per quanto è avvenuto.

Era inizio settembre, faceva caldo, e stavo bevendo un caffè, con la tua risata in sottofondo… e in questo caso le spiegazioni non servono.

Assenze.

Il ticchettìo dell’orologio è opprimente, soprattutto per lei che non è mai stata una donna organizzata, se non  per le cose essenziali e più importanti (ma, in fondo, neanche per quelle).

Il tempo passa ma le assenze restano, e con esse i ricordi.

Ci sono cose di lei che continuerò a ricordarmi per sempre, un po’ perché erano inusuali, un po’ perché riguardano l’unica persona che è entrata nella mia vita come spettatrice, ma mi ha conosciuta nel profondo, senza troppe domande.

Mi chiedo spesso come facesse, con quale coraggio e voglia sia stata capace di leggermi così a fondo, senza vergogna e senza un motivo preciso.

E oggi vorrei essere come lei, così arrogante e sfacciata, così spensierata e felice di ciò che aveva.

Se avessi saputo, le avrei detto – sin da quando l’ho capito – che lei, per me, è stata più di una semplice conoscente, ma un insegnante di vita.

Mi ha colpito nel profondo, mi ha insegnato a mostrarmi per quella che sono senza paure, ad accettare un insulto senza troppe paranoie, e a sentirmi bella nonostante le mie insicurezze: non che ne avessimo mai parlato direttamente, queste sono cose che ho appreso giorno per giorno, ed ora che quei giorni non ci sono più, mi trema un po’ il cuore.

Spero che lei, ovunque sia, mi veda quando viene fuori il suo nome durante una discussione, che si ricordi di me, una tra le tantissime, che le ha voluto un bene così grande, seppur non sia riuscita a dimostrarlo. Ogni persona ha un ricordo preciso di lei, tramite una foto, un momento particolare, un gesto che ha li ha segnati: io no.

Non riesco ad immaginarla in un ambito preciso, tanti sono i ricordi di lei.

La più dolce e la più forte è il suo volto stanco dopo aver fatto quelle dannate scale, mentre dondolava su quei tacchi osceni, e reggeva quella borsa rossa con le squame di non so quale animale, tutta rotta, ma che non voleva cambiare.

Chissà, magari la ha anche adesso, magari ora sta correndo da qualche parte, magari sta dando altri mille consigli sulla vita a qualcun altro, seduta su una sedia tremolante. Ora come ora ho solo una certezza: la sua assenza è presente nella mia quotidianità.

Mi mancano i suoi calzini di colori diversi, i suoi leggins assurdi, i suoi capelli mai pettinati, il trucco messo male, la “coda del profumo” che ogni volta cambiava, i suoi racconti strani, i suoi ricordi di una vita vissuta a pieno, il suo sorriso raro ma sincero.

Ma le sue parole piene di orgoglio quasi materno, sono la cosa che mi manca di più.

Non so se è normale starci ancora male, non essendo sua parente,o amica, o persona stretta. So solo che quando parlano di lei mi manca il fiato, e le lacrime scendono a goccia come se ci fosse una tubatura rotta.

Adesso guardo in alto e spero solo che stia bene.

Spero che sappia che il rumore dei suoi tacchi è il suono più malinconico e dolce che mi rimbomba in testa.

 

(UN RINGRAZIAMENTO A FRANCESCO LEURATTI PER LA FOTO MESSA COME SFONDO, SCATTATA E MODIFICATA DA LUI)